“From research to startup a CHALLANGE for the future”. La scritta campeggia sul tabellone della conferenza organizzata dall’Università di Palermo (UniPa) a New York, lo scorso martedì 19 novembre presso l’Italian trade commission (ex Ice, Istituto per il commercio estero, che ha solo ospitato l’evento, non l’ha organizzato).
L’errore di spelling e’ enorme, anche graficamente, eppure i promotori lo lasciano in bella mostra, davanti al pubblico di una cinquantina di persone fra cui anche alcuni investitori americani. E’ un’immagine emblematica di come troppe istituzioni italiane continuino a venire “in gita” a New York, sotto il cappello di iniziative apparentemente meritevoli, ma in pratica altrettante occasioni mancate per promuovere davvero gli scambi e gli affari fra l’Italia e gli Stati Uniti.
Oggi la scusa la offre la moda delle startup: tutti ne parlano e le citano come uno dei motori della possibile ripresa dell’economia italiana. Perché non saltare su questo carro, anzi carrozzone quando la benzina la danno i fondi europei o altri finanziamenti pubblici?
E così UniPa organizza, con l’aiuto del consulente Giovanni Pellerito, la sua missione a New York per presentare le sue nuove iniziative nell’High Technology District e nel campo della ricerca & business tecnologici. Tempo di preparazione: 15 giorni. Molti buoni propositi: “Puntiamo sull’internazionalizzazione della nostra università, ponte fra l’Europa e il Medio oriente – spiega il presidente Roberto Lagalla – e vogliamo fare fund raising fra privati per supportare la ricerca e le nostre startup. Lo slogan di UniPa e’ ‘una mente tecnologica in un corpo storico’.” Lagalla passa la parola alla docente di Ingegneria Patrizia Livreri che dovrebbe spiegare che cos’e’ l’High Technology District, ma non si capisce, non solo per lo stentato inglese, ma perché parla genericamente di “casi di successo” senza citare un solo nome; conclude con un misterioso cenno al connubio “grafene e patrimonio culturale”. Infine il preside della facoltà di Ingegneria Fabrizio Micari fa una presentazione ancora generale di UniPa senza dettagli sull’argomento del titolo, le startup universitarie. Il momento migliore dell’evento? Il gran finale con buffet di arancini e altre specialità culinarie siciliane, raccontano gli italo-americani di origini sicule presenti alla serata.
Solo chi ha pazienza di fare una ricerca online trova informazioni sul sito del corsorzio Arca, l’incubatore d’impresa di UniPa peraltro definito in modo infelice: “un ambiente protetto dalle insidie del mercato” (sic, pagina 25 del libro “Università degli Studi di Palermo – Un racconto per immagini”, distribuito all’evento). Ma se si va sul sito del Technology District for Cultural Heritage pubblicizzato dagli stessi organizzatori dell’evento UniPa si scopre solo una pagina introduttiva, ferma. Ci sarà un altro evento prossimamente per parlarne, assicura Pellerito.
A che cosa e’ servito allora l’attuale viaggio americano? Di solito per iniziative simili – comuni purtroppo a tutte le regioni, province, città italiane senza distinzioni fra Nord e Sud – la molla e’ il dover usare qualche finanziamento europeo che scade a fine anno.
Ma se UniPa vuole davvero farsi conoscere meglio e trovare partner all’estero e in particolare negli Usa, dovrebbe innanzitutto impegnarsi nel tirar su la sua posizione nelle classifiche internazionali delle università. Nella Shanghai Ranking – una delle più citate – fra 500 istituzioni nel mondo la prima italiana e’ l’Università di Pisa piazzata nella fascia 101°-150°; Palermo e’ nell’ultima fascia, la 401°-500°, in calo dalla posizione 301°-400° che aveva nel 2011. E nella classifica delle facoltà di Ingegneria, Tecnologia e Informatica la prima italiana e’ il Politecnico di Torino nella fascia 51°-75°, mentre la facoltà di Ingegneria di Palermo non figura. E non serve protestare sui metodi di queste classifiche, che sono oggettivi e uguali per tutti, come il numero delle pubblicazioni scientifiche dei ricercatori: bisogna capirli e cercare di apparire al meglio.
Le “gite” a New York potrebbero non essere inutili, ma gli organizzatori dovrebbero fare un po’ di compiti a casa:
1) Programmarle con largo anticipo, cioè mesi prima;
2) Definire con precisione gli obbiettivi;
3) Ascoltare i consigli di chi e’ sul posto sulla data (evitando la coincidenza con feste oppure orari assurdi), il posto e le persone da invitare;
4) Contattare prima gli invitati per capire che cosa si aspettano e avviare relazioni da coltivare nel tempo;
5) Preparare presentazioni brevi e “to the point”;
6) Far parlare solo chi ha un inglese fluente;
7) Chiedere il feed back ai partecipanti e mantenere i contatti con follow up.
Sembrano consigli scontati, eppure in 13 anni di lavoro a New York ed innumerevoli “missioni” italiane a cui ho assistito – denunciando anche i casi più clamorosi di sprechi in una serie di articoli sul Corriere della Sera intitolata “Diplomazia alle Vongole” (2004-2006, per esempio qui e ancora qui) – non ho visto una sola delegazione seguirli.